Ad uscire dalle aziende italiane sono stati prevalentemente uomini diplomati e laureati con un contratto a tempo determinato e lavori poco qualificati.
A dirlo è un’analisi attenta fatta confrontando i dati delle comunicazioni obbligatorie rilasciate dal ministero del Lavoro del terzo trimestre del 2021 con quelli del 2019.Stando agli ultimi dati forniti dal Ministero del Lavoro, in Italia sono un milione e 81 mila i dipendenti che nei primi nove mesi del 2021 hanno deciso di lasciare volontariamente il lavoro e, secondo la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, quasi uno su due, dopo aver rassegnato le dimissioni, non ha più un contratto attivo perché è alla ricerca di un’altra occupazione, per aver deciso di avviare un’attività in proprio o per scelte di vita diverse.
Numeri che confermano l’arrivo dell’onda lunga della Great resignation anche nel nostro Paese, seppur con caratteristiche diverse rispetto a quanto sta accadendo nei Paesi anglosassoni.
Chi si dimette in Italia
Disegnare un profilo dettagliato e definitivo del fenomeno al momento non è semplice, data la liquidità del quadro di riferimento, ma analizzando il campione rappresentativo di comunicazioni obbligatorie rilasciato dal ministero del Lavoro per motivi di ricerca, Francesco Armillei, Assistente di ricerca presso il Suntory and Toyota International Centres for Economics and Related Disciplines (STICERD) della London School of Economics e socio del think-tank Tortuga, è arrivato a risultati interessanti e utili per delineare le caratteristiche del fenomeno nel nostro Paese.
Ad andarsene sono stati più uomini che donne
Confrontando i dati di chi si è dimesso nel secondo e terzo trimestre del 2021 e chi lo ha fatto nello stesso periodo del 2019 è emerso, infatti, che a uscire dalle aziende nazionali sono stati prevalentemente uomini nelle fasce di età 50-64 anni e 30-39 anni, laureati o diplomati.Se poi si va a vedere che tipo di contratto avevano, ci si rende conto che il numero più considerevole di uscite ha coinvolto persone con un contratto di lavoro a tempo determinato, cresciute di oltre il 20%. Una fetta che pesa per oltre la metà del totale, mentre quelle con un contratto a tempo indeterminato sono aumentate solo del 9%.
I settori che hanno registrato il più alto numero di uscite
Interessante anche l’analisi delle variazioni rispetto al settore lavorativo di appartenenza dei lavoratori dimissionari, che vede il comparto delle costruzioni in testa con una crescita del 52% di dimissioni e che da solo spiega il 28% dell’aumento totale. Seguono poi il settore manifatturiero e quello della sanità.
I ruoli ricoperti? La categoria più rilevante è quella delle professioni non qualificate, seguita da quella degli artigiani e operai specializzati.
Dati che delineano un profilo diverso da quello da molti indicato finora. In Italia i dimissionari sono quindi prevalentemente persone con profili poco qualificati e un contratto a tempo determinato. E non si tratta affatto di un fenomeno che riguarda solo i giovani. Il quadro emerso dagli studi di Armillei e pubblicato interamente su lavoce.info, è molto più sfaccettato e, come detto sopra, in divenire.
E’ cambiato davvero il concetto di carriera e successo?
E anche sul cambiamento del concetto di carriera e successo c’è qualcosa da dire come spiega Silvia Bagdadli, professore di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi e direttrice nello stesso ateneo del Master in Organizzazione e Personale (MasterOP).
Fin dagli Anni ‘90 studi in materia hanno evidenziato l’esistenza di un doppio concetto di carriera. Uno oggettivo misurabile per esempio con il livello di stipendio, la posizione nella gerarchia aziendale, il numero di persone che si coordinano etc..
E uno più soggettivo, basato sul livello di soddisfazione in generale per la propria carriera e che può ricomprendere dimensioni come il work life balance, la possibilità di formarsi in continuazione, lo svolgere un lavoro che abbia un impatto positivo sulla società, l’avere relazioni positive con i colleghi etc..
Indubbiamente la pandemia, con tutti i suoi lockdown, ha costretto le persone a fermarsi e a riflettere sulla loro vita, privata e professionale, sui loro obiettivi, su chi sono e dove vogliono andare. In poche parole sul senso del lavoro.
E molti hanno concluso che il successo professionale consiste nell’essere soddisfatti di quello che si fa, nel trovare la felicità nella loro vita. Per alcuni questo coincide con la professione di sempre, per altri evidentemente no,
prosegue Bagdadli. Da qui il fenomeno della Great Resignation in tutto il mondo anche se con caratteristiche diverse Paese per Paese e con motivazioni differenti anche in base alla fascia d’età.
Per i giovani la carriera è un viaggio dentro sé stessi
Nel caso dei giovani, per esempio, molta responsabilità ce l’ha il mercato del lavoro e la sua precarietà. Dopo anni di frustrazioni e ambizioni infrante, di contratti a tempo, le nuove generazioni oggi guardano con malessere alle posizioni lavorative stabili e magari prestigiose ma di scarso impatto sociale.
Per loro il concetto di successo non è avere la casa in centro o essere proprietari di un’auto costosa, ma piuttosto sta nel trovare sé stessi. Nell’avere un lavoro che soddisfi le loro passioni, i loro interessi. E per questo sono disposti anche a cambiare occupazione spesso.«Ma va detto che molti dei giovani che si interrogano sul senso del lavoro, sono quelli cui è negato l’accesso a occupazioni stabili», precisa Bagdadli.
Così, non potendo accedere a certe carriere, molti vanno all’estero, altri cambiano completamente ambito lavorativo ed altri ancora decidono di avviare attività in proprio. Tra chi consegue una laurea che offre ampie opportunità lavorative, invece, coloro che scelgono una carriera “tradizionale” sono ancora numerosi.
Cinquantenni alla ricerca del senso perduto
E gli over50? Anche i senior, che hanno fatto tesoro di quanto successo durante i Lockdown e non intendono più tornare al passato, sono sempre più alla ricerca di quello che gli anglosassoni chiamano purpose.
Oggi, in questa fascia di età, le schiere di coloro che puntano a un miglior equilibrio tra vita lavorativa e professionale sono sempre più folte. Non importa guadagnare meno purché si raggiunga una miglior qualità della vita. Dopotutto tra gli insegnamenti lasciati dalla pandemia c’è la consapevolezza che negli anni ci siamo circondati di cose superflue di cui possiamo serenamente fare a meno.
E non è un caso che di questi tempi, in Europa e in tutto l’Occidente, si stia diffondendo a macchia d’olio un particolare termine giapponese: Ikigai; non ha una traduzione precisa, ma in sintesi significa la ragione per cui una persona si alza alla mattina; ciò che rende la vita degna di essere vissuta. E con l’allungarsi dell’età pensionabile, trovare il proprio Ikigai sul lavoro (e non solo) diventa fondamentale. Tanto che per rispondere a questa esigenza in Giappone stanno nascendo addirittura centri ad hoc.
Guai a guardare solo al breve periodo
Sia chiaro, il fenomeno è di quelli da studiare e da tenere monitorati, ma resta circoscritto anche perché, come ha giustamente osservato in un articolo pubblicato sul sito della della Bbc, Anat Lechner, professoressa associata di gestione e organizzazioni alla NYU Stern School of business: «La maggior parte dei lavoratori non può permettersi di fare un passo indietro perché deve preoccuparsi di mettere il cibo in tavola ogni giorno e pagare le bollette a fine mese».
E poi se la scelta si dovesse protrarre per un lungo periodo, potrebbe anche avere conseguenze di un certo peso. Soprattutto fra i giovani. «C’è il rischio che qualcuno sia troppo concentrato sul proprio benessere a breve termine da non rendersi conto che nulla può sostituire il duro lavoro quando si tratta di vivere comodamente fino alla vecchiaia e di sostenere una famiglia», aggiunge Lechner.
Le prime avvisaglie all’estero, dove il fenomeno della Grande rassegnazione è in atto da più tempo rispetto all’Italia, già ci sono. Nel Regno Unito, per esempio, una ricerca firmata da Royal London, società di servizi finanziari, ha evidenziato che il 40% dei giovani tra i 18 e i 34 anni ha ridotto i contributi pensionistici durante la pandemia o ha smesso del tutto di versare contributi, anche se l’aspettativa di vita continua ad aumentare in gran parte del mondo occidentale.
Dunque, ricalibrare la nostra comprensione di cosa significhino ambizione e successo professionale a favore della salvaguardia della salute e del benessere può senza dubbio avere dei vantaggi, ma ogni decisione che prendiamo deve essere pratica e non deve mettere a repentaglio il nostro futuro.
Alle aziende il compito della retention
E grande equilibrio lo devono dimostrare anche le aziende. «Se le persone talentuose escono dalle organizzazioni è chiaro che qualcosa non funziona e che va ripensata la politica di engagement delle risorse umane nonché l’organizzazione del lavoro stessa», interviene Bagdadli.
Non è un caso che le imprese più attente abbiano da tempo iniziato a ragionare sui temi del purpose, del lavoro ibrido, dell’importanza di lavorare e retribuire sulla base di obiettivi raggiunti e non più sulla base del tempo passato in ufficio.
«Le aziende devono iniziare a chiedersi quale valore può trarre una persona dal lavorare per loro al di là del pacchetto di compensi e benefit offerto», ha detto sempre alla Bbc Nicholas Pearce, professore alla Kellogg School of Management della Northwestern University in Usa.
«Quelle imprese che saranno capaci di rispondere in maniera chiara e convincente a questa domanda saranno in grado di attrarre e trattenere più persone». Già perché solo conoscendo il traguardo che ha in mente chi lascia, le imprese potranno mettersi nelle condizioni di trattenere le persone e percorrere convintamente la strada del lavoro sostenibile.