Una chimera poi esaudita per necessità. Questo è stato il primo impatto del materializzarsi improvviso dello smartworking in Italia.
Fatta eccezione per qualche multinazionale e lungimiranti casi sparuti, lo smartworking è stato inizialmente accolto come una buona misura anticontagio, più che come un cambiamento organizzativo radicale.
C’è chi lo ha accettato come una soluzione a tempo determinato, chi ne ha visto il profitto, inteso come un risparmio sui costi vivi della vita in ufficio, chi come una possibilità di conciliare la gestione della famiglia e il lavoro. Ma è stato veramente così?
Che forma ha lo smartworking in Italia? Se lo è chiesto anche la Fondazione studi dei consulenti del lavoro con un sondaggio svolto su un campione rappresentativo di occupati che la pandemia ha indotto a lavorare da remoto.Dei circa 7,3 milioni che svolgono incarichi senza muoversi dall’abitazione oggi il 14,8% lo fa in forma esclusiva, cioè senza andare mai in sede, il 16,8% alterna in presenza e a distanza. Ma chi sono i protagonisti di questa accennata rivoluzione? Il 52,2% è laureato, il 54,6% opera in aziende o organizzazioni terziarie, di servizio alle imprese, credito e assicurazioni, il 37,8% nella Pubblica amministrazione, il 27,9% nell’industria e il 21,2% nel commercio e distribuzione. C’è chi, un 16,7% di intervistati, vede, oramai, lo smartworking come un punto di non ritorno della propria vita professionale.
Una posizione simile è quella assunta da alcune grandi società che sono ormai pronte a modellare i processi lavorativi sull’esperienza vissuta per cogenza. Insomma, lo smartworking diventa opportunità. Secondo le informazioni raccolte da Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, si starebbe cercando di introdurre la formula di lavoro agile misto. Accordi che, quindi, prevedrebbero una parte del lavoro in presenza e una, invece, da remoto.Per due ragioni principalmente: per la natura del lavoro svolto e per la persona.
Partiamo da quest’ultima considerazione: lo smartworking ha portato con sé due rischi, l’impossibilità della disconnessione e l’isolamento di chi era abituato alla condivisione degli spazi, ma soprattutto delle relazioni, dei progetti, delle idee. Ma a essere danneggiato può anche essere il lavoro: una formula al 100% da remoto può non rispettare la natura di alcune professioni che richiedono una compresenza, una collaborazione, uno scambio di idee, progetti, informazioni. È così che lo smartworking ibrido può favorire l’ideazione in ufficio e la messa a terra da remoto così che tutti lavorino avendo già condiviso la ragione, lo scopo e la piena creatività del progetto.
Questa sarebbe la vera rivoluzione del lavoro agile, una modalità d’azione conciliante i diversi fattori della vita e stimolante.