Sono noti, ormai, i dati delle dimissioni volontarie, un fenomeno globale che è diventato il denominatore comune tra Paesi e generazioni distanti per cultura e per età.
Già perché, complice anche il trauma della pandemia, giovani, manager di mezza età, neolaureati, professionisti affermati hanno imboccato una strada fino a poco tempo fa impensabile: dimettersi volontariamente.
I numeri parlando di dimensioni molto importanti, che abbracciano una porzione non piccola di chi è occupabile. Ci sono più ragioni che portano a una scelta di una simile portata:
- il presentarsi di una nuova opportunità lavorativa;
- non trovare più l’entusiasmo iniziale o l’aver compreso;
- per via del Covid, che il tempo a disposizione è imprevedibile.
E da qui in molti è nato il desiderio di vivere il proprio tempo nel miglior modo possibile.Ma c’è anche chi abbandona il proprio posto di lavoro, occupato magari da decenni, per disperazione, perché non si sente riconosciuto o valorizzato.
Questo può anche accadere con un posto di grandi responsabilità e soddisfazioni, eppure dove qualcosa non torna. Magari perché il tempo del lavoro occupa tutto lo spazio dell’esistenza. Non si riconosce più il limite tra il tempo speso per la professione e il tempo speso per una passione, per curare i rapporti familiari, per poter approfondire la conoscenza di quello che ci circonda.
Non c’è più un limite al pc, al telefono, a whatsapp, zoom e hangout. È come toccare il fondo, come disperare del fatto che il tempo possa essere ben impiegato, cercando così l’unica soluzione che sembra a portata di mano: la sola modalità per ricominciare a respirare è abbandonare la nave in cui si naviga.C’è qualcosa però che può venire prima di questo momento, qualcosa che può anticipare una disperazione frettolosa che conduce a scelte a volte avventate: si chiama strategia (leggi qui come cambiare lavoro partendo dalla tue competenze). Già, perché arrivare a un punto di non ritorno è una possibilità sempre aperta per tutti, eppure può esserci un piano B.
Non poterne più, essere estenuati sono i sintomi di una non-preparazione, di un non-lavoro.
È chiaro, infatti, che il lavoro richiede un lavoro, cioè una strategia continuamente delineata, riformata, modellata a seconda delle richieste che il mercato pone. Si è esasperati solo se ci si concentra su di sé, su quel che si vorrebbe e non su quel che c’è, prima di tutto, su quel che è necessario per rimanere al passo con le novità che emergono, con le esigenze delle risorse umane, con le innovazioni necessarie alla crescita di sé e dell’azienda in cui si opera.
Il piano B allora di chiama strategia, un termine che porta con sé molteplici significati: coltivare senza sosta i rapporti lavorativi e personali che arricchiscono il nostro io, lo rendono vivace, creativo, curioso, ricettivo al punto che non è una fatica voler stare al passo, migliorarsi. Strategia significa anche essere profondamente realisti: dirsi senza paura cosa manca al nostro profilo, cosa ancora dobbiamo imparare, cosa non possiamo permetterci di non sapere.Strategia è anche chiedere aiuto quando ci si accorge di essere un po’ paralizzati, incancreniti su una posizione perché non è affatto semplice vederci chiaro in quel che si vorrebbe e potrebbe fare o nelle continue evoluzioni del mercato del lavoro.
Tutto questo perché? Perché ne vale la pena? Perché ognuno di noi si stanca di stare a galla, preferisce, in fondo, avere il fiato per andare al largo e vedere, scoprire…