Dopo un anno caratterizzato dal trend delle dimissioni volontarie siamo ora alle prese con un altro fenomeno, quello del quiet quitting, ovvero dipendenti che lavorano l’indispensabile in attesa che arrivi l’occasione giusta per lasciare l’azienda.
Un fenomeno, quello del quiet quitting che, a pensarci bene, è sempre esistito, soprattutto nelle organizzazioni medio grandi, dove capita che i dipendenti si sentano abbandonati al loro destino indipendentemente dall’impegno che ci mettono sul loro lavoro.
Ma, indubbiamente, si tratta di un trend che per imprese e direttori del personale rappresenta un’insidia ancora più pesante delle dimissioni volontarie, perché decisamente più subdola. Affrontare e gestire dipendenti che volontariamente si mettono in naftalina non è semplice, soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo che richiederebbe una partecipazione attiva al business da parte di tutte le persone non solo per affrontare la concorrenza globale, ma anche per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione.
Quiet quitting: meno giustificazioni più domande
Finora abbiamo trovato spiegazioni più o meno valide per i due fenomeni. Le dimissioni volontarie le abbiamo interpretate come il desiderio da parte delle persone di cercare un posto di lavoro dove stare meglio; ora il fenomeno del quiet quitting lo leggiamo come eredità del Covid 19 e la necessità di dare più spazio alla vita privata, ai propri interessi.
Ma le giustificazioni non bastano. Prova ne è che la demotivazione sul posto di lavoro continua a essere un problema e non solo fra le generazioni di lavoratori più giovani. A conferma arriva una ricerca di Gallup in base alla quale l’Italia è il Paese con i lavoratori più tristi, più stressati d’Europa e per di più con poche prospettive di cambiamento. Solo il 4% di noi si sente coinvolto sul lavoro. Una percentuale decisamente bassa che porta l’Italia a occupare la 38° e ultima posizione in Europa e nel mondo, dove la media di coinvolgimento dei dipendenti sul posto di lavoro è del 21%.
Davanti a questo gap, forse, è il caso che aziende e Hr manager la smettano di trovare spiegazioni e giustificazioni alla rassegnazione, all’apatia dei loro dipendenti e inizino a farsi e a fare delle domande.
La responsabilità delle aziende
Anche perché, secondo una recente ricerca della società di consulenza manageriale McKinsey, a condizionare negativamente il benessere delle persone concorrono diversi fattori tra i quali: la sensazione di dover sempre essere disponibili, trattamenti non equi, carichi di lavoro non sostenibili, scarsa autonomia e mancanza di supporto sociale. Ma l’elemento che più sembra pesare sull’insorgenza di burnout, sempre secondo McKinsey, è un ambiente organizzativo tossico, caratterizzato da un insieme di comportamenti interpersonali che portano le persone a sentirsi svalutate, insicure, trattate in modo non equo.
Un luogo di lavoro, insomma, dove mancano inclusione, rispetto e fiducia. La sintesi dello studio di McKinsey è che i dipendenti che sperimentano alti livelli di tossicità organizzativa hanno una probabilità otto volte più elevata di manifestare sintomi di burnout, fenomeno legato a doppio nodo all’intenzione di lasciare il proprio posto di lavoro.
E non è un caso che per Jack Zenger, esperto di sviluppo della leadership e Joe Folkman, esperto di leadership e cambiamento, in un recente articolo apparso sulla Harvad Business Review, suggeriscano che per affrontare il tema dell’apatia dei dipendenti sul lavoro sia prima di tutto importante analizzare lo stile di management aziendale.
Secondo gli studiosi americani, infatti, il quiet quitting non è tanto un fenomeno legato alla volontà di una persona di lavorare di più e in modo più creativo, quanto alla capacità di un manager di costruire una relazione con i propri dipendenti, di coinvolgerli, motivarli.
L’ascolto al centro delle priorità
Il quadro fotografa in modo nitido la decisa responsabilità dell’organizzazione delle aziende sia sul fenomeno delle dimissioni sia su quello del quiet quitting e altrettanto chiaramente pone il tema dell’ascolto in cima alle priorità da affrontare.
Capire perché le persone non si sentono coinvolte, conoscere quali sono le loro esigenze, i loro desiderata è il primo passo da compiere per mettere a punto politiche motivazionali e di engagement centrate che puntino alla responsabilizzazione di ogni persona. Un cambiamento della gestione delle persone che deve coinvolgere in prima persona manager e leader. A loro spetta infatti la responsabilità di definire obiettivi chiari e precisi e lasciare al dipendente l’autonomia decisionale di determinare il percorso più adatto per raggiungerli.
Perché, come dimostrano diversi studi fatti in materia, maggiore è l’autonomia nel lavoro, maggiori sono i livelli di motivazione, soddisfazione e creatività. La valorizzazione delle competenze di un dipendente e del lavoro che svolge è forse la leva motivazionale più forte. Per questo è importante per qualsiasi azienda riconoscere le qualità professionali dei propri addetti per assegnare loro compiti corrispondenti alle loro attitudini.
Se l’obiettivo è davvero accrescere la soddisfazione delle persone sul lavoro, aumentare la loro motivazione e il loro coinvolgimento per ritrovare coesione, condivisione di obiettivi nel nome del business aziendale, lamentarsi o limitarsi a fotografare la situazione di disagio non basta. Fondamentale è passare all’azione.