Aprile segna la fine dello stato di emergenza. Dopo due anni, questo mese diventa uno spartiacque che ci fa guardare in avanti, al futuro, con una speranza più determinata.
Perché è così che auspichiamo sia: un guardare avanti; attenzione – dunque – alla pericolosa bandiera del “ritorno alla normalità, al prima”. La pandemia da Covid19 ha scavato un solco, esiste un prima e un dopo, inutile negarlo e anche controproducente. Guardiamo ad esempio al mondo del lavoro, al modo in cui abbiamo lavorato, imparando a costruire e consolidare relazioni e a portare risultato anche da remoto.
Con la fine dello stato d’emergenza, termina anche lo smartworking di massa, quello non scelto ma necessario. Il rischio è quello di considerare ciò che abbiamo vissuto come una cogente rivisitazione del flusso di presenza nei luoghi di lavoro che non ha più diritto di cittadinanza. In altre parole: non c’è più l’emergenza, anche se i casi persistono, e quindi non c’è più la giustificazione a una, forse, adeguata rivoluzione del mondo del lavoro, degli spazi, dei rapporti interpersonali e gerarchici.
Ma siamo proprio sicuri? Siamo certi di non poter leggere quella che è stata una necessità determinata dalla situazione sanitaria come una nuova veste del nostro modo di pensare, un vero cambiamento di processi forse anche un po’ incancreniti? Sono domande che le risorse umane si stanno ponendo ed è giusto che si pongano.
Il rischio, infatti, è più grande laddove si voglia chiudere gli occhi: tornare indietro al “prima” non è senza conseguenze. I lavoratori, infatti, i collaboratori e i dipendenti hanno dovuto, per forza di cose, adattarsi a una vita nuova, a uno stile diverso dal precedente, a ritmi vestiti su una nuova quotidianità. E questi sono assetti che non possono essere mutati con un “on” e un “off”.
Sono determinazioni della persona che implicano una stima anche rispetto al proprio posto di lavoro. È indubbia la fatica dello smartworking in condizioni che non lo facilitano, ma è altrettanto chiaro il vantaggio che porta a una conduzione della vita privata più equilibrata rispetto a quella bilancia lavoro-famiglia sempre pendente, troppo, dal primo lato. Il lockdown e i mesi a seguire hanno fatto scoprire un nuovo bilanciamento e non se non può non tenere conto.
È il momento, allora, che ogni azienda non solo dichiari la fine dello stato d’emergenza e declami con le circolari quali siano le nuove regole. È importante aprire un processo di ascolto che vada al di là del dettare nuovi orari e modalità, come i classici tre giorni in presenza e due in smartworking. Sarebbe giusto, piuttosto, chiedere a chi lavora non di adattarsi, ma di dialogare con le HR per trovare un surplus di valore al lavoro in presenza. Le riunioni, infatti, non pretendono più la condivisione degli stessi uffici, lo abbiamo imparato tutti.
Che cosa allora dà valore e senso ai momenti trascorsi nelle stesse stanze, alla fatica di fare il viaggio fino all’azienda, di sistemare i bambini da nonni, asili e babysitter? Così facendo è l’azienda che si rafforza perché consolida la sua attraction nei confronti delle sue persone perché prova a rendere più semplice e – forse si può dire – felice la vita di chi si impegna giorno dopo giorno. Si chiami engagement o saper trattenere le persone di valore, ma, in realtà, è semplicemente fare il bene del singolo e della società.