Stiamo attraversando una fase complessa, dove le parole “crisi” ed “emergenza” ricorrono con una frequenza che non vorremmo. Eppure, in questo mercato del lavoro, provato, affaticato, non mancano i paradossi.
L’ultimo rapporto Unioncamere Excelsior delinea un paradosso i cui elementi in gioco sono numerosi. Partiamo dal primo gradino: la formazione intensa come il corso di studi dei giovani italiani. Si individua un dato, da un lato, positivo e, dall’altro, allarmante: tra il 2021 e il 2025 il mercato del lavoro italiano potrebbe aver bisogno di 1,2 milioni di laureati e 1,4 milioni diplomati, corrispondenti nel complesso ai due terzi del fabbisogno occupazionale del quinquennio, e di oltre un milione di lavoratori con qualifica professionale.
Questa è la buona notizia. Ma la cattiva è che il confronto tra domanda e offerta di neo-laureati mostra situazioni di carenza nell’offerta per alcuni ambiti. Le stime, poi, evidenziano un significativo mismatch anche per l’istruzione professionale poiché l’offerta complessiva è in grado di soddisfare solo il 50% della domanda potenziale.
Da questi ingredienti scatta un primo alert: la capacità educativa del nostro Paese è di alto livello, imposta e sviluppa capacità critica, di approfondimento e ricerca che tutto il mondo ci riconosce. Le nostre università sono inserite in ranking ottimi nelle classifiche mondiali.Ora è il tempo di domandarsi se una buona qualità, però, sia sufficiente a sopperire a un disallineamento tra la preparazione scolastica e quello che il mercato richiede.
Un antidoto a questo iato potrebbe sicuramente essere una maggior vicinanza tra il mondo della scuola e quello del lavoro, grazie a periodi formativi all’interno di aziende e luoghi professionali da parte dei giovani. Questa palestra è la strada migliore per prendere coscienza di ciò che c’è, di ciò che viene richiesto e ciò a cui si può tendere.Anche questo significa poter diventare maturi, una maturità non relegata al quinto anno, non identificata come il termine di un percorso scolastico, ma come una maturazione personale ricevuta anche nella connessione con il mondo del lavoro già durante gli anni scolastici.
Ma non è solo, certo, responsabilità della scuola e dell’università italiane. Secondo gradino: gli stessi occupati, afferma il rapporto, già inseriti quindi nel mercato del lavoro, sono un fattore fragile e a rischio e il mismatch rischia di peggiorare nel breve periodo in mancanza di politiche adeguate di re-skill. Tradotto, non si può restare mai fermi.
Le competenze sono come un seme che se non innaffiato non cresce e si secca.Ma nel mondo del lavoro questo significa non avere più spazio al punto che non sarà un contratto a tutelarci, ma solo il nostro essere perennemente employable.
Parole? No, questo richiede tanto impegno. Ciò passa inevitabilmente attraverso l’implementazione di piani formativi in grado di offrire le competenze necessarie a riqualificare, in modo da soddisfare a pieno i fabbisogni e limitare al massimo il rischio di disoccupazione.Ma laddove non fosse interesse dell’azienda poter formare costantemente i suoi lavoratori, sono loro stessi a poter chiedere alcune ore per formarsi o cambiare lavoro in vista di un miglioramento personale.
Certo, permane la necessità di un sistema di politiche che consenta di accompagnare il processo di adattamento dell’occupazionale ai mutamenti. Soprattutto se guardiamo alle competenze digitali che il rapporto Unioncamere Excelsior identifica come e-skills.
«L’effetto finale complessivo sull’occupazione dipende da due fattori principali: il primo dipende dalla pervasività e dall’intensità con cui la transizione digitale interessa gli ambiti lavorativi, alcuni esponendoli a rischio spiazzamento (job destruction) e altri interessati da una generazione ex novo (job creation); il secondo, invece, è legato alla capacità e alla velocità con cui il mercato del lavoro sviluppa le e-skills per riadattarsi alla nuova configurazione technology-driven della struttura occupazionale».
Perché parliamo di digitale? Perché è il terzo e ultimo gradino: a livello globale, il rapporto “The Future of Jobs” del World Economic Forum presenta una proiezione al 2025 che incorpora l’effetto Covid-19. Lo studio mostra da una parte la perdita di circa 85 milioni di posti di lavoro, le cui mansioni sono maggiormente suscettibili allo spiazzamento da parte delle nuove tecnologie.
Dall’altra parte, evidenzia come il contraccolpo occupazionale stimato al 2025 sarà più che bilanciato dai 97 milioni di posti di lavoro generati nello stesso periodo per le professioni emergenti. È interessante notare che la maggior parte di queste ultime fanno in qualche modo riferimento al nuovo paradigma digitale.
Dati tutti questi elementi, la strada da percorrere sembra chiara e l’impegno richiesto altrettanto.