Cosa si intende per “redeployment” e come un’organizzazione può trarre vantaggio e beneficio dall’applicarlo in azienda?
Partiamo da una precisazione: nel momento in cui l’azienda coglie il valore del redeployment ha già colto in pieno le potenzialità dell’engagement. Perché un’organizzazione funzioni è necessario che le persone siano stimolate, messe nelle condizioni di sentirsi in sfida con il cambiamento; insomma è nodale creare un ambiente dove ognuno percepisca la responsabilità di portare valore, cioè di restare employable.È solo così che un’azienda coltiva il management di domani, percependo questo aspetto come un investimento.
D’altra parte, persino quando si acquista un macchinario lo si manutiene, perché altrimenti non funziona più – dopo un certo periodo – e si spendono soldi per ripararlo o sostituirlo. Con il capitale umano, a maggior ragione, si deve procedere nella medesima direzione, dando alle persone visibilità della strategia per far crescere le risorse in parallelo con l’azienda, a livello di obiettivi di business, competenze, ma anche di attitudini, cultura e valori aziendali (molto più lenti e difficili da assorbire per risorse nuove).Per questo dico sempre che il redeployment è essenziale, se non ci si vuole lavorare per visione, lo si dovrà fare per opportunismo, perché conviene! Ogni persona si porrà il tema di formarsi e restare appetibile per l’azienda se si sentirà ingaggiata, se i capi saranno in grado di far percepire che ogni risorsa è importante: da qui scaturirà la motivazione, i processi di auto-empowerment, auto-allineamento e auto-formazione.
Come INTOO costruisce e approccia un progetto di redeployment?
La nostra caratteristica prima è di partire dalla persona, credere che qualsiasi cambiamento parta dalla consapevolezza del proprio status quo e la responsabilità del cambiare; è da qui che si può costruire un profondo e duraturo cambiamento dell’organizzazione e della strategia aziendale.
Si parte dall’ascolto e dal rispetto del singolo per stimolare la sua proattività; l’azienda non deve sostituirsi alle persone e costringerle a formarsi, ma metterle nelle condizioni di percepire la responsabilità e la necessità di proattivarsi.Faccio un esempio concreto: nei nostri percorsi di recupero della performance, mettiamo la persona nelle condizioni di definire in autonomia il proprio piano d’azioni per migliorare, laddove si siano evidenziate delle carenze; parlo di un piano che non rimandi alla responsabilità di altri. Perché secondo la nostra filosofia, la chiave è essere consapevole dei cambiamenti da fare e avere la responsabilità di mettere in atto azioni utili ed efficaci, proattivandosi verso il raggiungimento di un obiettivo concordato.
Cosa vi dà in più l’essere partner di Career Star Group?
La possibilità di confrontare esperienze diverse su Paesi con caratteristiche anche molto distanti tra loro e vedere sul campo cosa funziona e cosa no. Questo ci permette di allargare i nostri orizzonti e ci distingue dai competitor.
Non riproponiamo mai il medesimo progetto su Paesi diversi, facciamo un lavoro su misura, customizzato a partire dal wording, fino ai più delicati elementi della cultura locale e questo è nodale anche per realtà multinazionali. Ad esempio, parlando concretamente di un elemento quale il bilancio delle competenze, adeguiamo le testistiche adottando anche le modalità e le metodiche del Paese di riferimento.In più, l’essere presenti su mercati che anticipano determinate tendenze o trend ci permette di studiare e analizzare prima le direzioni del mercato e poterne avere miglior consapevolezza, condividere difficoltà ed errori, con un bel risparmio di fatica e maggior stimolo.
Che effetti ha avuto la pandemia su redeployment & outplacement?
Quest’anno ha messo in gioco tante cose, in particolare in Italia il blocco dei licenziamenti ha costretto le aziende a guardare in maniera più attenta alla gestione delle persone, in ottica di sviluppo del capitale umano presente. Si è spinto di più sul redeployment, anche se l’outplacement resta per noi il core business.
Ci si è posti maggiormente la questione di come le persone potessero dare il meglio, anche rivedendo processi interni consolidati: la pandemia in questo senso ha accelerato, anche in maniera violenta, tematiche che sarebbero comunque emerse.Ci si è concentrati sulla persona intesa nel senso più ampio e vero del termine, sul suo benessere, perché questo sostiene la performance. Lo si vede anche in questi giorni dalla corsa delle aziende a dirsi pronte a vaccinare all’interno dei propri spazi: ci si prende cura del proprio capitale umano, persino dal punto di vista sanitario, la serenità e la salute mentale e fisica abilita a lavorare nel modo migliore, l’engagement passa anche attraverso di questi aspetti.
Che futuro s’immagina in fase post pandemica?
Credo che la parola d’ordine sarà “allineamento” al mercato, con la disponibilità e la capacità di rispondere al meglio ai trend in continuo mutamento, internamente e/o esternamente all’azienda di provenienza.
Il Covid19, infatti, ha cambiato in maniera irreversibile gli scenari; si sono rivisti strumenti di utilizzo quotidiano, processi e competenze. Un aspetto che rilevo con interesse è che la comunicazione ha assunto un ruolo sempre più centrale: non basta saper fare, bisogna raccontare la propria unicità perché ci si interfaccia con un mercato ampio, a distanza ma assolutamente prossimo, che può diventare un’occasione prima impensabile. In una parola, credo che il futuro ci riservi una cosa: la centralità della persona. E il nostro lavoro si pone esattamente su questo piano.