Una ferita riempita di oro. Questa è la tradizione giapponese Kintsugi secondo la quale, quando si forma una crepa in un oggetto, la si deve esaltare con l’oro. Perché? Perché ciò che ha subito una ferita ed ha una storia può diventare più bello, nel suo nuovo modo di essere unico.
Questa pratica orientale è una delle metafore che la dott.sa Silvia Olivero, consulente INTOO, propone a chi sta seguendo un percorso di outplacement. Il suo workshop parla della resilienza come una “risorsa per superare i momenti di criticità e avversità”.
Ma che cosa è la resilienza? Nel nostro immaginario comune è sinonimo di resistenza. Ma lo psichiatra Boris Cyrulnik ci corregge in dieci parole: “La resilienza è più che resistere. E’ imparare a vivere”.
La psichiatria ha cominciato a analizzare il fenomeno della resilienza negli anni ’90 studiando le condizioni che permettevano a bambini che avevano subito violenze, a persone che avevano vissuto un evento traumatico come ad esempio l’aver vissuto un terremoto o in campi di concentramento, di continuare a svilupparsi e a vivere.
Negli anni successivi, la resilienza è stata accostata al fattore che permette di superare in modo costruttivo tutti quei fatti che irrompono nella vita come un fulmine a ciel sereno o come un’azione preannunciata, comportando una destabilizzazione.
E la dott.sa Olivero dettaglia: «La perdita del lavoro porta con sé il contatto con un vuoto: di identità, di relazioni, di espressione di sé, di gestione del tempo, di continuità economica». La perdita del lavoro crea, quindi, un disequilibrio. Un disequilibrio più o meno forte a seconda di com’è avvenuto l’evento e di quanto la persona aveva investito sul lavoro per trovare o esprimere la propria identità.
Ma è necessario attendere un nuovo lavoro per poter ripartire?
«Il punto è che una nuova opportunità potrebbe arrivare anche dopo mesi. In questo tempo è importante che la persona sia resiliente, cioè che lavori su di sé e con altri per ricostruire un nuovo equilibrio che non potrà più essere quello di prima. È necessario un cambiamento a partire dal contatto con il vuoto che si crea, una sua trasformazione».
Qual è il primo antidoto?
«Lavorare sugli aspetti di autostima e fiducia in sé, di assertività e sulla gestione delle emozioni. Spesso si reagisce alla perdita del posto di lavoro con molteplici emozioni, ad esempio con rabbia ma anche, magari, con sollievo, perché non stavamo più bene in quell’ambiente o nello svolgere quel ruolo. Possono emergere anche timore, sensi di colpa, così come la vergogna. Sono componenti emozionali che è importante poter accogliere, osservare e accettare come passaggio intrinseco di una trasformazione innanzi tutto interiore».
Reagiscono in modo differente gli uomini e le donne?
«Se ci riferiamo a una generalizzazione dei casi, possiamo affermare che la donna è più abituata a esteriorizzare i propri sentimenti, mentre l’uomo fa fatica a dire come sta. Nei nostri workshop vogliamo che tutti possano capire che è normale vivere emozioni intense e magari anche contrastanti in questi passaggi di vita. Il percorso che offriamo dura fino a ricollocamento avvenuto».
Se si intuisce bene il ruolo della resilienza in chi ha perso il lavoro, qual è il contributo che, invece, si può offrire a chi ha un lavoro in una condizione non soddisfacente?
«Bisogna sempre partire da un lavoro su di sé, capire le fonti di soddisfazione e insoddisfazione, leggere le proprie emozioni, chiedersi ad esempio “cosa mi fa sentire così irritato o insoddisfatto?”. Anche per cercare di cambiare lavoro è necessario applicarsi, cioè creare un progetto a partire da un ascolto di sé per capire: qual è la nostra unicità, cosa siamo capaci di fare, quale valore aggiunto possiamo dare, quali sono le competenze che abbiamo e quelle che potrebbero essere ancora espresse. Si deve quindi condurre una lettura interna abbinata a una lettura realistica e puntuale del mercato del lavoro. Questo aiuta a creare un progetto perseguibile che guidi la persona ad essere attiva e propositiva nella ricerca».
Qual è il consiglio che darebbe a chi ha perso il lavoro e chi non è soddisfatto di quello che ha?
«La resilienza è un lavoro che richiede gentile fermezza e perseveranza. Questo vale per chi è già fuori dal mercato e parimenti per chi deve capire in che direzione andare e come mantenere la rotta e l’energia. Una delle cose che dico sempre è: “non pensate che non si debba fare fatica. Si suda”. E non ci si può appellare al “Sarò di nuovo felice quando avrò trovato il lavoro”. Perché? Perché se deleghiamo la felicità al futuro e a qualcosa che non c’è, saremo sempre più infelici o tristi o arrabbiati. È una nostra responsabilità personale, invece, continuare a trovare, giorno dopo giorno, piccole felicità che ci diano l’energia, la positività, la fiducia necessaria a fare un cammino impegnativo, a dare il meglio di noi nelle occasioni che contano: gli incontri col network, con gli head hunter, con i selezionatori».