È trascorso il primo mese di smart working regolato da accordi individuali. Con il rientro dalle vacanze estive, infatti, si è chiuso il lavoro agile tipico dello stato di emergenza.
Dal 1° settembre, invece, per usufruire dello “smart” non esistono più indicazioni e direttive centrali, le aziende stipulano accordi individuali con i singoli lavoratori, con indicazioni specifiche sulle modalità di esecuzione.
Gli aggiornamenti sulla modalità di lavoro da remoto
Poi, con lo sblocco del decreto Aiuti bis, sono arrivati consistenti aggiornamenti sulla modalità di lavoro da remoto. È stato infatti approvato l’emendamento al decreto che proroga fino al 31 dicembre il diritto a lavorare da casa, ma solamente per i lavoratori fragili e con figli piccoli (peraltro non sono coperte tutte le età, solo gli under 14 e ad alcune condizioni: che in famiglia non sia assicurata la presenza di un altro genitore o che non ci sia un altro genitore già percettore di un ammortizzatore sociale, come la cassa integrazione).
Insomma, il bisogno deve essere reale, tanto che tra le ulteriori caratteristiche richieste è elencata anche l’evidenza che la prestazione professionale svolta dal lavoratore sia compatibile con il suo svolgimento da remoto, insomma che non sia un pro-forma.
Cosa è successo in Italia?
In questi ultimi due anni lo smart working si è rivelato uno strumento fondamentale per continuare a lavorare nonostante le restrizioni imposte per limitare la pandemia. In Italia è stato, e in più zone del Paese e per alcuni settori ancora lo è, uno stravolgimento epocale che ha portato i lavoratori, per i quali era possibile adottare questa misura, a un cambiamento radicale.
Dapprima un forte stress, che poi col tempo si è tradotto in un aumento della qualità della vita con una differente gestione del tempo.
In Italia tale istituto è apprezzato sempre di più soprattutto da chi ne è soggetto attivo, mentre molte aziende hanno determinato un rientro in ufficio appena la situazione sanitaria lo ha reso possibile. Gli stabilimenti e gli uffici sono tornati a essere popolati e, in alcuni casi, tale inversione è da considerare una vera retromarcia.
Le implicazioni del cambio di rotta
A essere sfavorite dall’ulteriore cambio di rotta sono soprattutto le donne, protagoniste di un modello ibrido tra smart working e lavoro in presenza. Perché questa formula ha, per molte, significato una più agevole conciliazione tra la vita privata e quella lavorativa.
Ma le donne non sono le uniche a lamentare un ritorno in ufficio full time. Sono tante le persone che, dopo aver impostato per due anni il lavoro secondo un certo stile, ritmo e obiettivi, ora si ritrovano a dover fare una curva e tornare indietro come se nulla fosse accaduto.
Le indagini demoscopiche (come quella di ADP Research Institute) dicono anche che il 64% dei dipendenti che fin qui ha potuto lavorare da remoto cercherà un altro impiego se costretto a tornare in ufficio.
Scenari futuri
È certamente un tema che non restituisce una fotografia in bianco e nero, bensì a più sfumature. All’inizio, nelle motivazioni per richiedere lo smart working, infatti, molti adducevano come fattori positivi anche il risparmio del tempo e dei soldi per la mancanza del viaggio verso l’ufficio e la diminuzione dello stress per il traffico.
Ora, invece, l’aumento dei costi dell’elettricità e delle bollette sta diventando un fattore contrario che spinge proprio nella direzione opposta, il ritorno in ufficio per un maggior risparmio a casa. Tra tutte queste luci e ombre si può dire che in sottofondo rimane, sottaciuta, la scarsa fiducia nei lavoratori e nella produttività se lontani dalle sedi di lavoro.
Rimane, quindi, da interrogarci su come si possa cambiare una mentalità decennale che rischia di essere ancorata a quello che “è sempre stato”, senza una visione pragmatica e realistica, con il coraggio di considerare “come è” e la profezia di vedere “come sarà”.