Il pregiudizio sugli Over55
Rubano posti di lavoro ai giovani; non hanno voglia di aggiornarsi; hanno perso la motivazione; faticano a tenere il passo con l’evoluzione del mercato; non sono in grado di adattarsi al nuovo modo di lavorare imposto dalla digitalizzazione, sono poco flessibili e non sono altrettanto produttivi e creativi come i giovani. Questi i principali pregiudizi che alimentano la discriminazione verso gli
over55 negli ambienti di lavoro, ormai arrivata a superare quella di genere.
A dimostrarlo con la chiarezza dei numeri è il recente studio
Sustainability Insights, condotto su un campione di oltre 5.000 persone in tutta Europa, dal quale emerge che 1 lavoratore su 3 (
34%) nell’ultimo anno è stato discriminato per la sua età anagrafica, 11 punti percentuale in più rispetto a quella legata al genere (
23%). Andando ancora più in profondità si scopre che il
31% dei dipendenti discriminati per l’ età, ricopre posizioni manageriali, rispetto al
21% dei lavoratori di livello non dirigenziale.
Numeri confermati anche dal
Global Report on Ageism,
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha analizzato i risultati di 83.000 interviste fatte a persone provenienti da 57 Paesi, rilevando che 1 su 2 ha evidenziato atteggiamenti di moderata o elevata discriminazione legata proprio all’età. Un trend in crescita che dimostra anche una forte resistenza, come conferma l’interessante ricerca condotta da
Michael North della NYU e
Ashley Martin di Stanford, in base alla quale molti professionisti che si oppongono apertamente al razzismo e al sessismo restano però prevenuti nei confronti dei lavoratori più anziani.
Solo il 35% delle aziende fa formazione per Over55
Il risultato? come fotografato da
55/Redefined, realtà che combatte l’ageismo (dall’inglese ageism, termine coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Neil Butler), il
68% dei lavoratori ritiene che il mercato del lavoro sia chiuso a
55 anni o poco più; il
24% si sente costretto ad andare in pensione prima di quanto desideri; il
33% ha perso interesse per il proprio lavoro a causa della mancanza di opportunità di carriera, mentre il
90% degli
over55 ritiene di aver competenze trasferibili per cambiare ruolo e/o settore, se il datore di lavoro fosse preparato a offrire
formazione tecnica. Ma solo il
35% delle aziende è disposto a farlo e ad assumere professionisti appartenenti a questa fascia di età in un nuovo settore o in un ruolo che hanno ricoperto in precedenza.
Nonostante il
National Poll on Healthy aging dell’Università del Mitchigan, tra gli altri, confermi che l’
88% dei senior concordi sul fatto di sentirsi più a proprio agio con l’avanzare dell’età e di avere un forte senso dello scopo (
80%).
Per i senior serve un cambio di strategia
Il mondo del largo consumo, della finanza, della comunicazione e del marketing ha capito bene che il target degli
over55 di oggi è diverso rispetto a quello di un tempo: ha un
orizzonte di vita più lungo, è più in salute, ha una buona disponibilità economica, così da qualche anno a questa parte, ha iniziato a pensare a campagne di comunicazione mirate per attrarre e fidelizzare questa interessante fetta di consumatori. Ed è tempo che anche le aziende si rendano conto che oggi un lavoratore senior con 12 anni di lavoro davanti (per ora ma potrebbero anche aumentare nel prossimo futuro), non può essere messo in naftalina, perché allora sì che diventa una zavorra per i bilanci aziendali. Soprattutto alla luce del fatto che nei prossimi 20 anni la popolazione in età lavorativa diminuirà di circa il
25% in tutte le economie occidentali. Nello stesso periodo,
gli over60 cresceranno del 40%.
Mantenere attivi i senior dovrebbe essere, quindi, una priorità per le aziende, come del resto sta già succedendo negli Stati Uniti e in UK. Da qui l’importanza di promuovere una cultura che apprezzi le capacità dei lavoratori più anziani sviluppando attività basate sul trasferimento della conoscenza come il
mentoring. Un
trasferimento di know how che dovrebbe essere pianificato per tempo e in modo strutturato.